C’è un vizio tutto italiano che ormai da anni contamina il nostro linguaggio sportivo: la creazione compulsiva di etichette brutte e inutili che pretendono di spiegare concetti antichi come il mondo. È il caso di giochista e risultatista, due termini sempre più abusati dai giornalisti sportivi italiani e ormai entrati nel gergo quotidiano anche tra i tifosi. Parole goffe, sgraziate, che fotografano più il vuoto culturale del nostro calcio che non una reale evoluzione del dibattito.
Significato di giochista e risultatista
Il significato di giochista e risultatista nasce da una presunta contrapposizione filosofica tra due approcci al calcio. Il giochista sarebbe l’allenatore (o la squadra) che punta al bel gioco, alla qualità, alla manovra ragionata, al possesso palla, alla superiorità tecnica come valore guida. Il risultatista, invece, è quello che bada al sodo: priorità al risultato, al pragmatismo, alla fase difensiva, magari sacrificando spettacolo e bellezza pur di portare a casa i tre punti.
Nulla di nuovo, in fondo: questa contrapposizione esiste da sempre, da quando esiste il calcio. Quello che cambia — in peggio — è la terminologia: giochista e risultatista sembrano termini inventati di fretta per riempire gli spazi televisivi e i titoli dei giornali, con un’estetica linguistica francamente imbarazzante.
I giornalisti sportivi e la creazione di etichette inutili
A chi dobbiamo la diffusione di giochista e risultatista? Ai giornalisti sportivi, ovviamente. Sempre più inclini a creare slogan e formule preconfezionate per semplificare discussioni vuote, da talk show del dopo-partita. Invece di analizzare il calcio in profondità, si preferisce dividere il mondo in categorie: o sei giochista o sei risultatista. Non ci sono sfumature, non c’è analisi, non c’è studio. Solo semplificazioni da bar che alimentano dibattiti sterili e infiniti.
Oggi il calcio italiano non ha nemmeno il problema
Ma il vero paradosso è che, oggi come oggi, in Italia il dibattito tra giochisti e risultatisti non dovrebbe nemmeno esistere. Per un motivo molto semplice: mancano i talenti. Altrove si può discutere se sia meglio puntare sul bel gioco o sul pragmatismo perché ci sono giocatori in grado di eseguire entrambe le idee. In Italia, purtroppo, il materiale umano è quello che è.
Il confronto impietoso con le altre nazionali
Basta guardare cosa succede fuori dai nostri confini. In Francia stanno emergendo talenti come Rayan Cherki e Désiré Doué, giocatori tecnici, creativi, moderni, pronti a incidere ad altissimo livello. Il Portogallo continua a produrre giocatori di qualità come João Neves, Francisco Conceição o António Silva, giovani già protagonisti in Champions League. In Spagna vediamo l’esplosione di talenti come Lamine Yamal, Nico Williams, Pau Cubarsí, mentre la Germania sta sfornando ragazzi come Florian Wirtz, Jamal Musiala, Aleksandar Pavlović.
Tutti giocatori nati e cresciuti in ambienti che formano i talenti. In Italia invece continuiamo a dibattere se sia meglio il giochismo o il risultatismo mentre ci arrangiamo con il poco che abbiamo, costretti spesso a convocare giocatori mediocri per mancanza di alternative reali.
Il vero problema è culturale e formativo
Il successo di termini come giochista e risultatista è il sintomo di un problema ben più grave. Non si ha il coraggio di ammettere che il nostro sistema calcistico ha fallito nel creare talenti moderni, capaci di stare al passo con l’evoluzione del calcio internazionale. Preferiamo rifugiarci in formule giornalistiche vuote, piuttosto che affrontare il nodo vero: come mai da anni non riusciamo più a produrre giocatori di alto livello?
Fintanto che ci accontenteremo di discutere all’infinito su giochista e risultatista, resteremo ancorati a un dibattito autoreferenziale, utile solo per occupare spazi in tv, ma privo di ogni reale utilità per il futuro del calcio italiano.

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